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 ESERCIZI SPIRITUALI
ACQUAVONA 2007


 
Un gruppo di Sacerdoti della nostra Diocesi di Cassano allo Jonio, insieme al Vescovo, S.E. Mons. Vincenzo Bertolone, dal 2 all’8 settembre, ad Acquavona (Cz), nel corso degli esercizi spirituali, dettati da Don Mauro Morfino S.D.B, ha cercato di “rileggere la propria vita sacerdotale alla luce della Parola del Signore.
Fin dal primo giorno, Don Mauro ha spiegato che gli esercizi spirituali non sono una scuola di preghiera, anche se dovremmo pregare meglio e di più. Non sono neppure una scuola di raccoglimento o di Yoga, anche se dovremmo meditare in silenzio. Non sono un tempo di lectio Divina, anche se bisogna leggere tutto nella luce della Parola di Dio.
Gli esercizi spirituali sono un ministero dello Spirito Santo, il quale è all’opera e, prima e meglio di noi, è presente, per farci intravedere qual è la volontà di Dio.
Per poter rileggere la nostra vita alla luce della volontà del Signore, dobbiamo accogliere questa Parola e lasciare che essa trasformi la nostra vita e diventi visibile nel nostro tempo. La grandezza e il motivo di esistere della Chiesa e del Sacerdote è proprio nel vivere per testimoniare il Vangelo e annunciarlo al mondo.
Il primo passo per accogliere la Parola è leggere, meditare ed ascoltare le Sacre Scritture, ha sottolineato Don Mauro. “Non leggere per imparare, come fanno i bambini. Non leggere per curiosità, come fanno molti adulti. Leggi per vivere”. (Flaubert Gustave).
Dopo un corso di esercizi spirituali tutti aspettiamo - da noi stessi innanzitutto - e dagli altri i frutti dello Spirito! “…Il frutto dello Spirito… è amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé”. (Gal 5,22). Il frutto dello Spirito è UNO: l’amore. Ama – Dio –e – ama – i – fratelli. DIO ESIGE DI NON ESSERE AMATO DA SOLO!
Ringraziamo il Signore per averci donato questi momenti di grazia, il nostro Vescovo e tutti i Sacerdoti che hanno partecipato a questi incontri dando una bella testimonianza della loro fede e della loro valida esperienza pastorale.
Preghiamo il Signore affinchè possiamo essere sempre più uniti e affinché trionfi l’amore tra di noi realizzando quanto dice Gesù: “Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri”.
Per non dimenticare l’esperienza vissuta, riporto la sintesi magistralmente esposta da Don Mauro a conclusione degli esercizi, con il solo desiderio che possano trarne buoni frutti spirituali anche quanti la leggeranno sia sacerdoti sia cristiani fedeli laici.
***
Meditazione conclusiva di Don Mauro Maria Morfino SDB
“rileggiamo la nostra vita alla luce della parola del Signore”

<<In questi giorni, di ascolto e di preghiera, il Signore ha visitato ciascuno in un modo unico e vogliamo ringraziarLo, per la sovrabbondanza di grazia e benevolenza che ci ha dato gratuitamente.
Ci siamo soffermati su testi che ci hanno parlato di amore: l’amore di Dio e l’amore tra di noi. Umanamente, l’amore si esprime sempre nelle relazioni. Non esiste l’amore allo stato puro; esistono bensì le relazioni.
In base a quanto la grazia del Signore ci ha suggerito attraverso la sua Parola, è possibile mettere insieme alcuni criteri di valore circa le nostre relazioni: relazioni tra di noi, relazioni con la nostra gente, relazioni in genere.
Ogni persona ha necessità di vivere le relazioni in un certo modo, consapevole che, se esse vengono vissute malamente e camminando per altre strade, possono far molto male a noi e agli altri.
Come si riconoscono le relazioni “sentite” cristianamente e umanamente stabili, arrivate cioè ad una maturazione, ad una pienezza?
Quali sono i criteri che dovremmo ricordare da un punto di vista personale e pastorale, in quanto, fondamentalmente, educhiamo alla fede ed a vivere umanamente ed in modo pieno l’esistenza?
Quando si può parlare di relazioni che siano costruttive per la comunità e per i singoli?
Ci sono alcuni rivelatori che, tenendo conto di tutto l’ascolto di questa settimana, è possibile enucleare velocemente, in quanto ci possono aiutare a rivisitare e rilanciare le nostre relazioni.

Il primo grande criterio, nelle relazioni interpersonali, è la capacità di viversi come vicini e allo stesso tempo come distinti dall’altro. Se noi pensiamo che la stessa nostra vita eterna non sarà una commistione centrifugata, nè un frappè di anime, e che risorgeremo nella nostra carne, cioè, nella nostra identità, davanti al Signore, allora, il criterio per vivere relazioni significative non è quello della fusione, ma è quello di poter vivere vicini alle persone, viversi rispetto a chi stiamo amando. In altre parole è quella capacità di collocarsi vicini, non distanziati in modo difensivo nella relazione nè rintanati come in un rifugio, nel quale non c’è possibilità di vera relazione.
Chi ha fatto l’esperienza di relazioni significative con Dio e con gli altri, percepisce che questi due estremi, o la difensiva o la chiusura nel proprio guscio, non costituiscono la strada per vivere correttamente la relazione. Bisogna essere “distinti”, perché, nella misura in cui noi siamo assorbiti dall’altro, non possiamo più amare, non abbiamo più la possibilità di incontrare le persone. Noi incontriamo gli altri a partire dalla nostra individualità. Anche nelle relazioni pastorali, che a volte diventano affettivamente a “zabaione” non facendo distinguere i confini individuali, è necessario comprendere che, per amare realmente, bisogna mantenere i propri tratti, conservare un’identità distaccata e sapere chi si è per se stessi, per Dio e per gli altri. Quando incominciano a cancellarsi i confini personali nella relazione, allora tutto diventa un pò frammischiato ed anche concesso. Probabilmente oggi ci troviamo di fronte allo scardinamento di questo criterio che però è fondamentale per la vita in quanto determina la maturità affettiva.
Tale maturità naturalmente non è mai raggiunta una volta per tutte, ma va reimparata per consentire a ciascuno, come afferma il Vangelo, di dare la vita senza confusioni affettive e di vivere vicini ma distinti, nel rispetto delle varie individualità, come fa il Pastore in mezzo alla sua gente.
Si tratta, allora, di entrare in quella dimensione di graduale cammino, che è necessario compiere nella nostra vita umana, spirituale e di Pastori, nonchè di uscire dalla fase di dipendenza affettiva e dalle relazioni conflittuali, nocive alle relazioni con le persone che ci sono affidate d’amare. Fare questo tipo di esperienza diventa anche, da un punto di vista spirituale, un’ esperienza molto bella, perché ci permette, in qualche modo, di gustare la nostra consistenza e la nostra identità personale. Quanto più sono frastagliati i bordi delle relazioni tanto più ci si può permettere di tutto e di più, sconfinando nella vita altrui in modi, a volte, veramente gravi e dannosi proprio alla crescita nella direzione dell’unicità e della singolarità. Quanto più è confusa la relazione, tanto meno gustiamo la verità di noi stessi e non aiutiamo le persone ad accedere alla verità davanti a Dio, davanti a se stessi e davanti al creato. Quando nell’amore viene liquidata (raggiunta o perseguita) questa sana autonomia, indispensabile per vivere le relazioni, soprattutto quelle celibatarie, in quanto siamo persone pubbliche, rivestite di una valenza molto complessa, c’è un impatto emotivo fortissimo sugli altri. Da questo punto di vista, questa sana autonomia, questo possedersi e viversi come vicini, ma nello stesso tempo distinti rispetto all’altro, ci fa davvero Pastori buoni del popolo di Dio.
Soltanto in questo clima è possibile una reale collaborazione nel presbiterio e all’interno della comunità dove siamo mandati ad operare.

Un secondo criterio, nelle nostre relazioni, è quello della stabilità relazionale. La stabilitas è quella che si riscontra nelle persone che esprimono accoglienza, moralità, senza discontinuità. Un rapporto relazionale affettivo, volitivo, intellettuale, corre costantemente tra me e chi amo, tra me e chi sono chiamato a servire. L’incostanza, invece, crea solo tormenti. Nelle relazioni la stabilità nell’amore è data naturalmente anche da tutti gli elementi umani, per cui, quando essa, questa energia affettiva, è in balia di interessi confessati, non confessati, confessabili o non confessabili, e quando essa è tutta legata all’instabilità umorale o di altra natura, possono insorgere gravi problemi tra noi e chi ci è affidato da amare. La stabilità affettiva, invece, produce un pastore che mette in moto relazioni affidabili. Di questo Pastore ci si può fidare e sappiamo quanto ciò sia necessario per la crescita del singolo e delle comunità, che sanno di trovare in noi serenità e accoglienza. La persona che è di umore non stabile, dal punto di vista pastorale, produce invece nella gente ansia e distanza affettiva.
Un terzo criterio, dal quale possono nascerne altri oggettivi, oltre che soggettivi, è la capacità di reciprocità: questa consiste nell’atto di accogliere la persona, rispettarla nella stessa misura in cui io ho la coscienza di ricevere il rispetto dagli altri, a prescindere da intelligenza, cultura, sanità, sensibilità o rozzezza. Il criterio della reciprocità è caratterizzato dunque dalla consapevolezza della parità di valore tra gli esseri umani, che consente di accogliere le persone, indipendentemente dalle sue virtù e dai suoi limiti, come un dono che ci viene fatto per “crescere”. Questa capacità di reciprocità nella relazione mette ognuno in un atteggiamento di disponibilità e di irriducibilità dell’altro a noi stessi, così come insegna Colui che non ci riduce, ma ci promuove. Essa fa nascere la possibilità del patto, la possibilità dell’alleanza, di accordi reali, di interscambi, di collaborazione, sommamente necessarii a tanti nostri presbiteri, ottimi corridori, ma ognuno per conto proprio. L’accordo e l’interscambio nel mutuo riconoscimento ci porta a vivere la reciprocità, addirittura in un surplus di comunione. Proprio perchè Gesù Cristo si è fatto carne, queste leggi non possono essere ignorate in quanto volute da Dio, il quale non ci ha pensato come manichini o come robot automatici pre-programmati, ma come esseri responsabili. E’chiaro che c’è l’indispensabilità di lavorare come presbiterio, oltre che come singoli, su questo versante, anche con la gente. Noi non siamo migliori, ed Elia lo dice, io non sono migliore dei miei fratelli. Elia, la fiamma della profezia. Questo cammino si concretizza piano piano, passando da quelle forme a cui abbiamo accennato prima o di superiorità alta o di vermitudine bassa. Tra questi due estremi nasce la possibilità della reciprocità, che porta alla corresponsabilità, anche a livello di gerarchie ecclesiastiche.

Un quarto criterio è la capacità del dono di sé: esso consiste nella capacità di gratuità nel proprio operare, attingendo a piene mani alla fonte che è dentro di noi: La Grazia divina. Quando perveniamo a un dono disinteressato si può parlare di oblatività che trova la sua forza nello Spirito ricevuto, in questo paraclitos che diventa fonte zampillante senza fine nel petto del credente. Se non si possiede questa fonte, a cui attingere la possibilità di continuare a donarsi, evidentemente noi periamo e cominciamo una sorta di accattonaggio affettivo terribile, che può causare la rovina della persona. E’ chiaro che questa capacità di dono di sé non si fa dall’oggi al domani. Uno dei tratti per verificare il nostro essere persone donate per il regno, per amore divino nel servizio degli altri, è quando si dona non avendo bisogno dell’altro, in modo assolutamente disinteressato. Soltanto il dono gratuito di noi costruisce la comunità, non le sembianze, il facsimile del dono. La comunità è una realtà che costruisce Dio, attraverso persone che mettono in atto la parola di Gesù in base alla quale nessuno ha un amore più grande di questo, dare la vita per i propri amici.

Un quinto criterio, che ci può aiutare a rivisitare il nostro essere Pastori e le nostre relazioni, è quello della dipendibilità, che ci consente di vivere l’altra persona come complementare a me, nella consapevolezza di poterne avere bisogno per la nostra e per la sua crescita. Quando si vive questa dipendibilità, si sa muoversi molto bene, si capisce quali sono i limiti e si capisce l’altro interagendo reciprocamente: si attua così una costruttività che, a partire da questo principio di dipendibilità, non vuol dire, naturalmente, dipendenza affettiva. Noi abbiamo, per vivere, necessità di tutti e gli altri hanno bisogno di noi.

Al cuore delle relazioni vi è un sesto criterio, quello della bellezza e della possibilità delle relazioni, ossia la capacità empatica.
Pensiamo, a questo punto, quanto l’incarnazione sia l’empatia portata al massimo livello. Rivestire i sentimenti, i panni, la pelle altrui per entrare in una dimensione reale di empatia che smuova realmente il cuore, sentire ciò che l’altro sente, mettersi nella disponibilità di vestire i suoi panni pur restando se stessi, significa vivere un rapporto empatico. Gesù non ha rivestito soltanto i panni, ma soprattutto la carne, rimanendo se stesso: ecco perché Egli rappresenta il sommo dell’empatia divina, la vera estroflessione divina. Gesù è l’amore, è il vero amore estatico; è l’extasis, è l’espressione continua dell’amore del Padre per noi in una empatia che per noi Pastori deve diventare una regola di vita, certamente l’efflorescenza più bella di un Pastore, che fa dire alla gente “mi capisce, sa cosa sto vivendo e lo sento vicino, non invadente”.
Un settimo criterio è la capacità di riflettere sull’altro la propria positività. S. Paolo ha affermato che, ponendosi in un atteggiamento di attenzione, di accoglienza, di benevolenza e facendo entrare la persona nel nostro orizzonte, si realizza l’ amore, proprio come è successo tra Pietro e Gesù, che ha riflesso sul suo apostolo il proprio positivo, facendogli percepire di valere e di essere. Questo è un criterio irrinunciabile in quanto, se la persona che si ha di fronte si sente amata, riesce a cogliere anche tutti quei tratti di positività, un vero serbatoio a lui stesso nascosto, una reale promozione della vita. Il Pastore, per il suo peculiare modus amandi, non si limiterà a raccomandare di non fare del male, come la bibbia ricorda, ma promuoverà il bene facendo emergere tutto il positivo che molto spesso la persona stessa, per mille motivi, non riesce ancora ad esprimere e facendole scorgere gli indizi e le orme del passaggio del Signore nel suo cuore.

Un ottavo criterio è la capacità di tollerare le ambivalenze immancabili in ogni persona. Il Pastore non può chiudere gli occhi sulla realtà e la verità ed ignorare l’inevitabile ambivalenza umana, ma certamente non deve favorirla, ma piuttosto ridurla promuovendo la vita delle persone, senza perfezionismi, e cercando di far cogliere ad ognuno quella percezione affettiva, emotiva, empatica di cui si è detto precedentemente.
Il processo di unificazione del nostro cuore dura tutta la vita: è un processo lungo ed impegnativo, indispensabile per la crescita, ma non automatico ed immediato. Esso richiede l’esercizio da parte di noi Pastori della pazienza, la stessa che ci ha insegnato il Signore e che conduce ognuno a scoprire quello che la Bibbia chiama un cuore puro.

Un nono criterio è l’introiezione dei valori. Questo valore è tale se viene assunto e detta legge lambendo tutti gli ambiti della vita, senza essere offuscato da nessun tipo di influenza esterna. Per noi Gesù Cristo, il celibato per il regno, tutto ciò che ci è stato raccontato dalla Parola, indicano la direzione relativamente alla affettività che ci viene costantemente monitorata, verificata a partire dai valori su cui abbiamo fondato la nostra vita. Allora è evidente che, sempre illuminati dal Signore, bisogna vivere tutte le relazioni tenendo conto di questo tipo di scelta affettiva dalla quale non si può prescindere in quanto si basa sui valori fondanti della vita.
Questi sono alcuni criteri evinti dalla Parola del Signore, ribaditi da alcune riflessioni di Don Primo Mazzolari sulla figura ed il ruolo del prete: “Si cerca per la Chiesa un uomo che trovi la sua libertà nel vivere e nel servire e non nel fare quello che vuole, si cerca per la Chiesa un uomo che abbia nostalgia di Dio, che abbia nostalgia della Chiesa, nostalgia della gente, nostalgia della povertà di Gesù, nostalgia dell’ obbedienza di Gesù. Si cerca per la Chiesa un uomo capace di morire per lei, ma ancora più capace di vivere per la Chiesa, un uomo capace di diventare ministro di Cristo, profeta di Dio, un uomo che parli con la sua vita”.>>
 

Sac. Carmine De Franco
 

 

 
   

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